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lunedì, novembre 17, 2008

Pola 1948: i dannati dell'Istria

Pola 1948: i dannati dell'Istria

In libreria «L'esodo»: dalle foibe ai lager di Tito, storia di una tragedia dimenticata di Arrigo Petacco

Pubblichiamo un brano del libro «L'esodo» di Arrigo Petacco, tratto dalla terza parte «Istria Addio»

Mentre centinaia di migliaia di italiani abbandonavano le loro case per sfuggire al comunismo e alla slavizzazione, altri italiani, sia pure in numero assai più esiguo, affrontavano liberamente il percorso inverso spinti dall'utopia e dalla fede nella causa socialista. Di questo singolare controesodo, che ebbe una conclusione ben più tragica di quello pur amaro e drammatico dei profughi istriani in quanto, oltre al danno, ci fu anche la beffa, non si era mai parlato in questi ultimi decenni. Era infatti un capitolo doloroso della storia giuliana destinato a rimanere blindato negli archivi del Pci. Solo dopo la caduta del Muro di Berlino e la bancarotta del comunismo, alcuni superstiti, sentendosi ormai svincolati dalla disciplina di partito, hanno cominciato a parlare... I vuoti aperti dal forzato esodo degli italiani nelle campagne dell'Istria erano stati facilmente colmati dall'afflusso di contadini sloveni e croati fatti giungere dall'interno della Jugoslavia. La stessa operazione si era però rivelata irripetibile nelle città e soprattutto nei cantieri un tempo efficienti e operosi di Pola e di Fiume. Malgrado le lusinghe e le promesse delle autorità, le maestranze italiane, salvo rare eccezioni, avevano preferito l'esilio. Ripopolare i cantieri come era stato fatto per le campagne era impossibile per l'assoluta carenza di tecnici mentre, nel contempo, era indispensabile per il governo di Belgrado rimettere in movimento la produzione industriale. Fu così che, per risolvere il problema, i teorici slavi della «pulizia etnica» dovettero giocoforza ricredersi e chiedere aiuto ai «compagni» italiani. L'«operazione controesodo», sviluppata nel massimo segreto, fu il frutto di un accordo di vertice fra i comunisti jugoslavi e i comunisti italiani. Da parte nostra, se ne occupò personalmente il vicesegretario del Pci Pietro Secchia. L'operazione prevedeva il trasferimento clandestino di volontari italiani, reclutati nei cantieri di Monfalcone, ma anche nelle altre fabbriche di Gorizia, di Trieste e del Friuli, ai quali sarebbe stato affidato il compito di contribuire, come allora si usava dire con slancio retorico, all'«edificazione del socialismo» in Jugoslavia. In parole più povere: a insegnare agli jugoslavi come far funzionare i nostri cantieri di cui si erano impadroniti. Oltre all'aspetto economico, questo singolare esodo alla rovescia si prefiggeva anche un significato politico. La presenza di operai italiani nelle industrie di Pola e di Fiume avrebbe infatti consentito alla stampa comunista di sostenere che non tutti gli italiani, ma soltanto i «fascisti», avevano scelto la via dell'esilio. A organizzare il controesodo con un'azione segreta e capillare svolta nelle sezioni, fu l'Uais, l'Unione antifascista italo-slovena. I volontari furono circa duemila i quali, divisi in scaglioni, si trasferirono in Jugoslavia con le rispettive famiglie. Erano tutti specialisti e tutti fortemente ideologizzati. Molti di loro avevano combattuto la guerra partigiana nelle formazioni jugoslave. Sinceramente animati da uno spirito che superava i confini degli Stati, erano orgogliosi di poter partecipare alla costruzione del socialismo in un paese che si era liberato da solo dai nazisti e che aveva edificato la sua unità nazionale all'insegna della fratellanza dei popoli. Li animava anche la fierezza di far parte della mitica «aristocrazia operaia» che Lenin aveva indicato come la «punta di diamante» della rivoluzione proletaria. I «monfalconesi», come saranno generalmente chiamati, cominciarono ad arrivare in Jugoslavia verso la metà del 1947, quando era ancora in pieno svolgimento l'esodo degli italiani dall'Istria. Nessuno si accorse del loro controesodo o, comunque, non fu registrato dalla stampa. I nuovi arrivati vennero destinati in gran parte alle industrie di Fiume e all'Arsenale e ai cantieri di Pola. Altri furono distribuiti in varie località nel cuore della Jugoslavia dove più era sentito il disperato bisogno di maestranze qualificate. Dovunque arrivarono, furono accolti dignitosamente e sistemati con le famiglie in maniera adeguata. Le paghe erano decenti, gli alloggi scelti fra i migliori a disposizione nelle città che li ospitavano. Fu concessa loro anche una completa autonomia nell'organizzazione politica. Erano tutti iscritti al Pci e poterono liberamente ricostituire le loro sezioni e le loro cellule. (...) Per qualche mese tutto filò liscio. Salvo qualche episodio di sciovinismo da parte jugoslava e le defezioni di alcuni italiani che preferirono tornarsene a casa dopo avere constatato di trovarsi in una realtà diversa da quella che si aspettavano, non si registrarono incidenti degni di nota. I «monfalconesi» lavoravano duro e l'entusiasmo non era mai venuto meno. Svolgevano un'intensa attività politica e mantenevano stretti legami con la federazione del Pci di Trieste. Forti della loro posizione di esperti indispensabili e anche dell'appartenenza al più forte partito comunista dell'Occidente, sapevano farsi rispettare. Quando qualcosa non funzionava bene in fabbrica, non esitavano ad organizzare forme di protesta. Una volta scesero anche in sciopero: il primo sciopero della storia della Jugoslavia comunista. «Non fu per ragioni politiche» racconterà Riccardo Bellobarbich, un monfalconese sopravvissuto a quella terribile esperienza «ma per colpa del peperoncino... Il cibo troppo piccante non era di nostro gusto. Protestammo invano e alla fine decidemmo di incrociare le braccia. Per gli jugoslavi era una cosa inaudita: gli altri operai ci guardavano sbigottiti come fossimo dei marziani. Ma alla fine la spuntammo, e i cuochi delle mense si adeguarono». I veri problemi cominciarono nel 1948 dopo la rottura fra Tito e Stalin seguita al rifiuto jugoslavo di aderire al Cominform, l'organizzazione creata da Stalin per imporre a tutti i partiti comunisti l'obbedienza sovietica. Per i «monfalconesi», stalinisti convinti e iscritti al Partito comunista italiano (il cui capo indiscusso, Palmiro Togliatti, figurava fra i primi firmatari della risoluzione che «scomunicava» Tito), fu un trauma. Animati da una fede cieca e assoluta nell'Urss e nel suo partito-guida, ribellarsi alla volontà di Stalin era, per loro, peggio di un sacrilegio. Roba da non credere ai propri occhi. D'altra parte, non era stato lo stesso Milovan Gilas, allora braccio destro di Tito e teorico del marxismo, ad affermare che «senza Stalin neppure il sole splenderebbe come splende?». Ora, invece, Tito osava disobbedire al grande e amato capo di tutti i lavoratori, disertando la lotta comune per il socialismo e abiurando quella fede che aveva dato loro la forza di affrontare senza paura il fascismo e di sopportare la prigionia e le torture. No, per i «monfalconesi» tutto ciò era inammissibile.

LA «QUINTA COLONNA» MONFALCONESE

I primi a muoversi furono gli operai italiani che lavoravano nei cantieri di Fiume e di Pola. Alimentati attraverso canali segreti dal Pci del territorio libero di Trieste, guidato da Vittorio Vidali, e dal Pci di Palmiro Togliatti, i «monfalconesi» costituirono per qualche tempo una «quinta colonna» cominformista cui era affidato il compito di riportare la Jugoslavia nell'orbita sovietica e liberarla dalla «cricca» di Tito diventato nel frattempo, sulla stampa comunista, il «lacchè dell'imperialismo. (...) Naturalmente, questa situazione non poteva durare. Verso la fine del 1948 entrò infatti in azione l'Ozna, la famigerata polizia politica, che organizzò vaste retate di «monfalconesi» che furono poi deportati nei lager dell'interno e nelle isole. Solo Ferdinando Marega riuscì a non farsi prendere e, dopo avere operato per qualche tempo nella clandestinità, riuscì a rientrare in Italia. Qui giunto, informò immediatamente il partito di quanto stava accadendo in Jugoslavia. Raccontò delle persecuzioni, delle torture, delle deportazioni e dei «gulag» dentro i quali erano stati rinchiusi tanti compagni che non avevano voluto abiurare la fede. Ma non fu ascoltato. Anzi fu invitato, come lo saranno tanti altri «monfalconesi» sopravvissuti all'inferno jugoslavo, a mantenere il silenzio per «non danneggiare il partito». D'altra parte, in quel momento, se alla stampa comunista era consentito di diffamare Tito con ogni calunnia possibile, era invece proibito menzionare i «gulag» jugoslavi per non richiamare l'attenzione su quelli ben più numerosi che esistevano da tempo in Unione Sovietica. Di conseguenza, il Pci abbandonò i «monfalconesi» al loro tragico destino.

LE URLA DAL SILENZIO

«Avevo sei anni, ma il ricordo è vivo e quelle drammatiche immagini pesano ancora come un'ombra inquietante sulla mia coscienza di uomo e di comunista». Chi parla è Armido Campo, figlio di Ribella e nipote di Vinicio Fontanot, famoso comandante della Brigata «Garibaldi-Natisone». Ora vive alla Spezia e, dopo circa cinquant'anni, si è deciso per primo a rompere il silenzio che la sua famiglia si era imposta per disciplina di partito. Racconta Armido: Eravamo tutti comunisti dello zoccolo duro. Mia madre, Ribella, vedova di un deportato in Germania, si era risposata con Sergio Mori, il mio secondo padre, che era allora un quadro del Pci, Lasciammo Monfalcone all'inizio del 1947 per andare a vivere in Jugoslavia, dentro il comunismo reale, dal quale stavano fuggendo in massa gli italiani dell'Istria. Dopo la rottura fra Tito e Stalin la mia famiglia venne deportata a Zenica in Bosnia. C'erano con noi tre famiglie di monfalconesi: i Battilana, i Bressan, i Comar, i Babuder, i Gratton e Elsa Fontanot. In quel villaggio finimmo a contatto con i prigionieri tedeschi condannati ai lavori forzati. Ricordo la pietà di mia madre e di mia nonna Lisa le quali, dimenticando che i nazisti avevano ucciso i loro mariti, portavano tazze di brodo a quei prigionieri immersi nella neve. Anche noi, per la verità, vivevamo come prigionieri, ma non portavamo le catene come i tedeschi. Restammo lì per più di un anno, completamente dimenticati dal Pci che non poteva ignorare quanto stava accadendo. Vittorio Vidali, certamente, sapeva tutto, ma nessuno fece nulla per noi. Per questo, Sergio Mori decise un giorno di fuggire da Zenica e riuscì a raggiungere Zagabria dove si mise in contatto con il console italiano. Poco tempo dopo, grazie all'intervento del governo italiano, fummo liberati, tornammo in Italia e cademmo dalla padella nella brace... Le nostre case di Monfalcone erano state assegnate ai profughi dell'Istria, i nostri posti di lavoro anche. Ci consideravano degli appestati...