da Zoppola di tutto un po'

Si parla di un po' di tutto: musica, coro, botanica, montagna, cibo, politica, scuola, economia, linguistica, filosofia.....fate vobis!

mercoledì, novembre 19, 2008

KV 550


Andrea, perchè affermi che l'ultimo tempo della KV 550 è cattivo?

Perchè ciò che mi da la coda di una sinfonia, l'ultimo tempo e la cadenza, è tutto.
La cadenza dell'ultimo tempo è terribile, è sadica, scostante, fa vedere la sua enormità e cattiveria, prendendo in giro i poveri piccoli uomini che si accostano per ascoltarla; anche io, si, anche se so che cosa vuole farmi: soggiogarmi, facendomi vedere la sua bellezza, facendomi fremere dell'intricato gioco contrappuntistico, prima, scaraventarmi poi, facendomi del male. Come è riuscita molte a volte a fare, ma ora la so utilizzare a mio pro, so giocarci, so almeno in parte comprenderla, e quindi rattristarmi un po' ascoltandola, prendere un po' di paura, questo si, ma non come al primo ascolto.
Ormai, nel dopo ascolto, mi fortifico.

martedì, novembre 18, 2008

Preso tal quale da un blog.....molto simpatica......"Le misure mistiche dei fogli"

le misure mistiche dei fogli
avete mai notato le misure assurde dei fogli di carta? suvvia, sarà capitato a tutti di misurare la lunghezza di un lato di un foglio "a4" per tagliarlo esattamente a metà... ebbene, riporto adesso qui di seguito la lista dei formati "a" con le relative misure in centimetri:
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formato a0 84,1 x 118,9
formato a1 59,4 x 84,1
formato a2 42,0 x 59,4
formato a3 29,7 x 42,0
formato a4 21 x 29,7
formato a5 14,8 x 21
formato a6 10,5 x 14,8
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ma che razza di misure sono queste? quale sarebbe la ragione per scegliere e soprattutto mantenere queste misure? il principio, semplice e ragionevole, è questo: tutto inizia dal primo foglio (per il quale però si è scelto un incomprensibile formato 841 x 1189, che sarebbe l'approssimazione delle misure di un foglio di un metro quadrato), poi non si fa altro che piegare il foglio lungo il suo lato maggiore, e continuando così si ottengono gli altri formati. in teoria. visto che poi comunque i conti non tornano perché le misure sono approssimate. dividendo per due il lato lungo e semplicemente riportando la misura del precedente lato corto, secondo la citata regola, senza approssimare otterremmo queste misure:
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formato a0 84,1 x 118,9
formato a1 59,45 x 84,1
formato a2 42,05 x 59,45
formato a3 29,725 x 42,050
formato a4 21,025 x 29,725
formato a5 14,8625 x 21,025
formato a6 10,5 125x 14,8625
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perché partire dalle misure approssimate di un foglio da un metro quadrato (che poi danno pure 9999,49)? perché non rispettare piuttosto il buon senso, ovvero la praticità? se all'inizio si fosse scelto (o se ci si decidesse a scegliere) un formato divisibile in modo semplice, tipo 80 x 120, avremmo le seguenti misure:
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formato a0 80 x 120
formato a1 60 x 80
formato a2 40 x 60
formato a3 30x 40
formato a4 20 x 30
formato a5 15x 20
formato a6 10 x 15
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quanto sarebbe più semplice?

lunedì, novembre 17, 2008

Pola 1948: i dannati dell'Istria

Pola 1948: i dannati dell'Istria

In libreria «L'esodo»: dalle foibe ai lager di Tito, storia di una tragedia dimenticata di Arrigo Petacco

Pubblichiamo un brano del libro «L'esodo» di Arrigo Petacco, tratto dalla terza parte «Istria Addio»

Mentre centinaia di migliaia di italiani abbandonavano le loro case per sfuggire al comunismo e alla slavizzazione, altri italiani, sia pure in numero assai più esiguo, affrontavano liberamente il percorso inverso spinti dall'utopia e dalla fede nella causa socialista. Di questo singolare controesodo, che ebbe una conclusione ben più tragica di quello pur amaro e drammatico dei profughi istriani in quanto, oltre al danno, ci fu anche la beffa, non si era mai parlato in questi ultimi decenni. Era infatti un capitolo doloroso della storia giuliana destinato a rimanere blindato negli archivi del Pci. Solo dopo la caduta del Muro di Berlino e la bancarotta del comunismo, alcuni superstiti, sentendosi ormai svincolati dalla disciplina di partito, hanno cominciato a parlare... I vuoti aperti dal forzato esodo degli italiani nelle campagne dell'Istria erano stati facilmente colmati dall'afflusso di contadini sloveni e croati fatti giungere dall'interno della Jugoslavia. La stessa operazione si era però rivelata irripetibile nelle città e soprattutto nei cantieri un tempo efficienti e operosi di Pola e di Fiume. Malgrado le lusinghe e le promesse delle autorità, le maestranze italiane, salvo rare eccezioni, avevano preferito l'esilio. Ripopolare i cantieri come era stato fatto per le campagne era impossibile per l'assoluta carenza di tecnici mentre, nel contempo, era indispensabile per il governo di Belgrado rimettere in movimento la produzione industriale. Fu così che, per risolvere il problema, i teorici slavi della «pulizia etnica» dovettero giocoforza ricredersi e chiedere aiuto ai «compagni» italiani. L'«operazione controesodo», sviluppata nel massimo segreto, fu il frutto di un accordo di vertice fra i comunisti jugoslavi e i comunisti italiani. Da parte nostra, se ne occupò personalmente il vicesegretario del Pci Pietro Secchia. L'operazione prevedeva il trasferimento clandestino di volontari italiani, reclutati nei cantieri di Monfalcone, ma anche nelle altre fabbriche di Gorizia, di Trieste e del Friuli, ai quali sarebbe stato affidato il compito di contribuire, come allora si usava dire con slancio retorico, all'«edificazione del socialismo» in Jugoslavia. In parole più povere: a insegnare agli jugoslavi come far funzionare i nostri cantieri di cui si erano impadroniti. Oltre all'aspetto economico, questo singolare esodo alla rovescia si prefiggeva anche un significato politico. La presenza di operai italiani nelle industrie di Pola e di Fiume avrebbe infatti consentito alla stampa comunista di sostenere che non tutti gli italiani, ma soltanto i «fascisti», avevano scelto la via dell'esilio. A organizzare il controesodo con un'azione segreta e capillare svolta nelle sezioni, fu l'Uais, l'Unione antifascista italo-slovena. I volontari furono circa duemila i quali, divisi in scaglioni, si trasferirono in Jugoslavia con le rispettive famiglie. Erano tutti specialisti e tutti fortemente ideologizzati. Molti di loro avevano combattuto la guerra partigiana nelle formazioni jugoslave. Sinceramente animati da uno spirito che superava i confini degli Stati, erano orgogliosi di poter partecipare alla costruzione del socialismo in un paese che si era liberato da solo dai nazisti e che aveva edificato la sua unità nazionale all'insegna della fratellanza dei popoli. Li animava anche la fierezza di far parte della mitica «aristocrazia operaia» che Lenin aveva indicato come la «punta di diamante» della rivoluzione proletaria. I «monfalconesi», come saranno generalmente chiamati, cominciarono ad arrivare in Jugoslavia verso la metà del 1947, quando era ancora in pieno svolgimento l'esodo degli italiani dall'Istria. Nessuno si accorse del loro controesodo o, comunque, non fu registrato dalla stampa. I nuovi arrivati vennero destinati in gran parte alle industrie di Fiume e all'Arsenale e ai cantieri di Pola. Altri furono distribuiti in varie località nel cuore della Jugoslavia dove più era sentito il disperato bisogno di maestranze qualificate. Dovunque arrivarono, furono accolti dignitosamente e sistemati con le famiglie in maniera adeguata. Le paghe erano decenti, gli alloggi scelti fra i migliori a disposizione nelle città che li ospitavano. Fu concessa loro anche una completa autonomia nell'organizzazione politica. Erano tutti iscritti al Pci e poterono liberamente ricostituire le loro sezioni e le loro cellule. (...) Per qualche mese tutto filò liscio. Salvo qualche episodio di sciovinismo da parte jugoslava e le defezioni di alcuni italiani che preferirono tornarsene a casa dopo avere constatato di trovarsi in una realtà diversa da quella che si aspettavano, non si registrarono incidenti degni di nota. I «monfalconesi» lavoravano duro e l'entusiasmo non era mai venuto meno. Svolgevano un'intensa attività politica e mantenevano stretti legami con la federazione del Pci di Trieste. Forti della loro posizione di esperti indispensabili e anche dell'appartenenza al più forte partito comunista dell'Occidente, sapevano farsi rispettare. Quando qualcosa non funzionava bene in fabbrica, non esitavano ad organizzare forme di protesta. Una volta scesero anche in sciopero: il primo sciopero della storia della Jugoslavia comunista. «Non fu per ragioni politiche» racconterà Riccardo Bellobarbich, un monfalconese sopravvissuto a quella terribile esperienza «ma per colpa del peperoncino... Il cibo troppo piccante non era di nostro gusto. Protestammo invano e alla fine decidemmo di incrociare le braccia. Per gli jugoslavi era una cosa inaudita: gli altri operai ci guardavano sbigottiti come fossimo dei marziani. Ma alla fine la spuntammo, e i cuochi delle mense si adeguarono». I veri problemi cominciarono nel 1948 dopo la rottura fra Tito e Stalin seguita al rifiuto jugoslavo di aderire al Cominform, l'organizzazione creata da Stalin per imporre a tutti i partiti comunisti l'obbedienza sovietica. Per i «monfalconesi», stalinisti convinti e iscritti al Partito comunista italiano (il cui capo indiscusso, Palmiro Togliatti, figurava fra i primi firmatari della risoluzione che «scomunicava» Tito), fu un trauma. Animati da una fede cieca e assoluta nell'Urss e nel suo partito-guida, ribellarsi alla volontà di Stalin era, per loro, peggio di un sacrilegio. Roba da non credere ai propri occhi. D'altra parte, non era stato lo stesso Milovan Gilas, allora braccio destro di Tito e teorico del marxismo, ad affermare che «senza Stalin neppure il sole splenderebbe come splende?». Ora, invece, Tito osava disobbedire al grande e amato capo di tutti i lavoratori, disertando la lotta comune per il socialismo e abiurando quella fede che aveva dato loro la forza di affrontare senza paura il fascismo e di sopportare la prigionia e le torture. No, per i «monfalconesi» tutto ciò era inammissibile.

LA «QUINTA COLONNA» MONFALCONESE

I primi a muoversi furono gli operai italiani che lavoravano nei cantieri di Fiume e di Pola. Alimentati attraverso canali segreti dal Pci del territorio libero di Trieste, guidato da Vittorio Vidali, e dal Pci di Palmiro Togliatti, i «monfalconesi» costituirono per qualche tempo una «quinta colonna» cominformista cui era affidato il compito di riportare la Jugoslavia nell'orbita sovietica e liberarla dalla «cricca» di Tito diventato nel frattempo, sulla stampa comunista, il «lacchè dell'imperialismo. (...) Naturalmente, questa situazione non poteva durare. Verso la fine del 1948 entrò infatti in azione l'Ozna, la famigerata polizia politica, che organizzò vaste retate di «monfalconesi» che furono poi deportati nei lager dell'interno e nelle isole. Solo Ferdinando Marega riuscì a non farsi prendere e, dopo avere operato per qualche tempo nella clandestinità, riuscì a rientrare in Italia. Qui giunto, informò immediatamente il partito di quanto stava accadendo in Jugoslavia. Raccontò delle persecuzioni, delle torture, delle deportazioni e dei «gulag» dentro i quali erano stati rinchiusi tanti compagni che non avevano voluto abiurare la fede. Ma non fu ascoltato. Anzi fu invitato, come lo saranno tanti altri «monfalconesi» sopravvissuti all'inferno jugoslavo, a mantenere il silenzio per «non danneggiare il partito». D'altra parte, in quel momento, se alla stampa comunista era consentito di diffamare Tito con ogni calunnia possibile, era invece proibito menzionare i «gulag» jugoslavi per non richiamare l'attenzione su quelli ben più numerosi che esistevano da tempo in Unione Sovietica. Di conseguenza, il Pci abbandonò i «monfalconesi» al loro tragico destino.

LE URLA DAL SILENZIO

«Avevo sei anni, ma il ricordo è vivo e quelle drammatiche immagini pesano ancora come un'ombra inquietante sulla mia coscienza di uomo e di comunista». Chi parla è Armido Campo, figlio di Ribella e nipote di Vinicio Fontanot, famoso comandante della Brigata «Garibaldi-Natisone». Ora vive alla Spezia e, dopo circa cinquant'anni, si è deciso per primo a rompere il silenzio che la sua famiglia si era imposta per disciplina di partito. Racconta Armido: Eravamo tutti comunisti dello zoccolo duro. Mia madre, Ribella, vedova di un deportato in Germania, si era risposata con Sergio Mori, il mio secondo padre, che era allora un quadro del Pci, Lasciammo Monfalcone all'inizio del 1947 per andare a vivere in Jugoslavia, dentro il comunismo reale, dal quale stavano fuggendo in massa gli italiani dell'Istria. Dopo la rottura fra Tito e Stalin la mia famiglia venne deportata a Zenica in Bosnia. C'erano con noi tre famiglie di monfalconesi: i Battilana, i Bressan, i Comar, i Babuder, i Gratton e Elsa Fontanot. In quel villaggio finimmo a contatto con i prigionieri tedeschi condannati ai lavori forzati. Ricordo la pietà di mia madre e di mia nonna Lisa le quali, dimenticando che i nazisti avevano ucciso i loro mariti, portavano tazze di brodo a quei prigionieri immersi nella neve. Anche noi, per la verità, vivevamo come prigionieri, ma non portavamo le catene come i tedeschi. Restammo lì per più di un anno, completamente dimenticati dal Pci che non poteva ignorare quanto stava accadendo. Vittorio Vidali, certamente, sapeva tutto, ma nessuno fece nulla per noi. Per questo, Sergio Mori decise un giorno di fuggire da Zenica e riuscì a raggiungere Zagabria dove si mise in contatto con il console italiano. Poco tempo dopo, grazie all'intervento del governo italiano, fummo liberati, tornammo in Italia e cademmo dalla padella nella brace... Le nostre case di Monfalcone erano state assegnate ai profughi dell'Istria, i nostri posti di lavoro anche. Ci consideravano degli appestati...

martedì, novembre 04, 2008

Da un simpatico Blog di un mio Amico

Bibbia moderna?

La dottoressa Laura Schlesinger é una famosa giornalista della radio americana; nella sua trasmissione dispensa consigli alle persone che telefonano. Qualche tempo fa, Laura ha affermato che alcune cose, secondo la Bibbia (Lev.18:22) sono un abominio, e non possono essere tollerate in alcun caso; per esempio l'omosessualità.
La seguente é una lettera spedita alla dott.ssa Laura Schlesinger.

Cara Dottoressa Schlesinger,
le scrivo per ringraziarla del suo lavoro educativo sulle leggi del Signore. Ho imparato davvero molto dal suo programma, ed ho cercato di dividere tale conoscenza con più persone possibile. Adesso, quando qualcuno tenta di difendere lo stile di vita omosessuale, gli ricordo semplicemente che nel Levitico 18:22 si afferma che ciò é un abominio. Fine della discussione.
Però, avrei bisogno di alcun consigli da lei, a riguardo di altre leggi specifiche e come applicarle.
- Vorrei vendere mia figlia come schiava, come sancisce (Esodo 21:7). Quale pensa sarebbe un buon prezzo di vendita?
- Quando sull'altare sacrificale accendo un fuoco e vi ardo un toro, so dalle scritture che ciò produce un piacevole profumo per il Signore (Lev.1.9). Il problema é con i miei vicini: loro, i blasfemi, sostengono che l'odore non é piacevole. Devo forse percuoterli?
- So che posso avere contatti con una donna quando non ha le mestruazioni (Lev.15: 19-24.). Il problema é come faccio a chiederle questa cosa? Molte donne s'offendono.
- Il Levitico ai versi 25:44 afferma che potrei possedere degli schiavi, sia maschi che femmine, a patto che essi siano acquistati in nazioni straniere.
Un mio amico afferma che questo si può fare con i filippini, ma non con i francesi. Può farmi capire meglio? Perché non posso possedere schiavi francesi?
- Un mio vicino insiste per lavorare di Sabato. Esodo 35:2 dice chiaramente che dovrebbe essere messo a morte. Sono moralmente obbligato ad ucciderlo personalmente?
- Un mio amico ha la sensazione che anche se mangiare crostacei é considerato un abominio (Lev. 11:10), lo sia meno dell'omosessualità. Non sono affatto d'accordo. Può illuminarci sulla questione?
- Sempre il Levitico ai versi 21:20 afferma che non posso avvicinarmi all'altare di Dio se ho difetti di vista. Devo effettivamente ammettere che uso gli occhiali per leggere... La mia vista deve per forza essere 10 decimi o c'é qualche scappatoia alla questione?
- Molti dei miei amici maschi usano rasarsi i capelli, compresi quelli vicino alle tempie, anche se questo é espressamente vietato dalla Bibbia (Lev 19:27). In che modo devono esser messi a morte?
- Ancora nel Levitico (11:6-8) viene detto che toccare la pelle di maiale morto rende impuri. Per giocare a pallone debbo quindi indossare dei guanti?
- Mio zio possiede una fattoria. E' andato contro Lev. 19:19, poiché ha piantato due diversi tipi di ortaggi nello stesso campo; anche sua moglie ha violato lo stesso passo, perché usa indossare vesti di due tipi diversi di tessuto (cotone/acrilico). Non solo: mio zio bestemmia a tutto andare. E' proprio necessario che mi prenda la briga di radunare tutti gli abitanti della città per lapidarli come prescrivono le scritture? Non potrei, più semplicemente, dargli fuoco mentre dormono, come simpaticamente consiglia Lev 20:14 per le persone che giacciono con consanguinei?
So che Lei ha studiato approfonditamente questi argomenti, per cui sono sicuro che potrà rispondere a queste semplici domande. Nell'occasione, la ringrazio ancora per essere così solerte nel ricordare a tutti noi che la parola di Dio é eterna ed immutabile.
Sempre suo.
Un ammiratore devoto.


Non è fantastico?
Trovo che qualunque cosa detta qui sia perfetta per portare avanti la battaglia per la difesa dei diritti di tutte le persone, aldilà della loro fede religiosa, della loro matrice politica, della loro sessualità, dei loro gusti sessuali (quando non vadano a cozzare contro un qualcosa di più importante; spiego: un gay è una persona normale, un pedofilo che mi stupra i bambini va condannato perchè va contro una morale generale).
Pensateci